Argentina superiore, per l'Italia c'è molto da lavorare
C’è stato un singolo, breve momento in cui è sembrato che l’Italia potesse riagganciare la partita contro l’Argentina: è durato i secondi che sono passati tra il volo del pallone ovale in mezzo ai pali di Monigo per il -8 all’undicesimo minuto della ripresa e l’in-avanti di Marco Fuser sul calcio d’inizio seguente degli avversari.
Quattro minuti più tardi Santiago Cordero firmava la quarta meta dei Pumas, annullava la fatica di erculee proporzioni fatta dagli Azzurri e portava i sudamericani a chiudere, di fatto, un match che sarebbe stato obiettivamente incredibile riuscire a riaprire con un solo vero sprazzo positivo, la fiammata d’orgoglio a inizio ripresa dopo la meta di Matias Moroni al 42′.
Non si può dire che l’Italia non sia stata volitiva: ha costretto gli avversari a fare più placcaggi, a commettere più falli, ha avuto più possesso e ha portato più palloni, per molti più metri. Ha passato di più, ha fatto più offloads e più punti d’incontro.
Eppure, quella di Treviso è la seconda più larga sconfitta di sempre nei 23 precedenti fra Azzurri e Pumas. Solo nel 2002 al Flaminio l’Argentina andò sopra i 21 punti di scarto di sabato, vincendo 36-6. L’anno precedente, a Buenos Aires, aveva vinto 38-17, punteggio molto simile a quello di Monigo.
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Sui temi tattici che hanno determinato l’incontro già molto si è detto: l’Italia è stata in palese difficoltà in rimessa laterale, battuta nel gioco aereo e imprecisa dal punto di vista tattico, oltre a patire un’inferiorità nello scontro fisico che ha visto gli Azzurri rimbalzare a più riprese contro il muro argentino e finire sotto nella battaglia per il possesso al breakdown.
Le difficoltà in touche sono una magagna che la Nazionale si porta dietro da diverso tempo, ma che sembrano essere peggiorate in maniera eccessiva per una compagine del livello degli Azzurri.
Il gioco aereo non è tanto questione di dimensioni, com’è stato da alcune parti suggerito: basti pensare ad esempio alla terza meta argentina, dove Mateo Carreras va a prendere un pallone clamoroso dall’alto dei suoi 172 centimetri, o al fatto che lo stesso Carreras junior (i due non sono fratelli, ma il numero 11 è più giovane di un anno, classe ’99) fosse schierato di fronte a Edoardo Padovani, cedendogli quasi 20 centimetri mai messi alla prova in un duello uno contro uno in aria.
È qui che si innesta il discorso tattico: l’Argentina è stata decisamente più brava nel mettere in difficoltà la copertura profonda degli Azzurri, che cede in tutte le prime 3 marcature avversarie.
Nella prima, i Pumas sono bravi a mettere Minozzi di fronte al miss-match fisico con Boffelli. Ma più che le responsabilità dell’estremo azzurro, conta lo scarso lavoro fatto dai 14 compagni senza palla nell’impedire a Marcos Kremer di arrivare davanti a tutti e avere un’autostrada aperta verso la linea di meta: tutto il pacchetto di mischia azzurro, sul calcio di Santiago Carreras, partiva in vantaggio rispetto agli avversari, ma intorno al punto di caduta del pallone ci sono le maglia biancocelesti di Kremer, Isa e Gonzalez.
Nella seconda, Monty Ioane ha il dovere di intervenire molto più tempestivamente sul telefonato grubber di Jeronimo De La Fuente, invece di perdere un contrasto calcistico con il giovane terza linea Gonzalez, ottimo flanker classe 2000 uscito più o meno dal niente.
Allo stesso modo, è in colpevole ritardo Edoardo Padovani sulla terza marcatura: Santiago Carreras si accorge immediatamente che, salito Minozzi sulla linea per esigenze difensive, l’ala chiusa azzurra è rimasta sul settore destro del campo. Il calcetto morbido trova il prato, il rimbalzo tradisce un estremo italiano un po’ morbido nella circostanza e alla fase successiva l’Argentina può aggirare gli avanti azzurri e segnare alla bandierina.
Ancor più che le magagne tattiche, c’è stato però un aspetto che è stato poco sottolineato nella lettura della partita da parte dei giocatori e dello staff. Gli Azzurri non sono riusciti a tenere il pallone in mano. Nel senso stretto dell’azione: la quantità di palloni persi in avanti, scappati al controllo dopo il contatto o una volta placcati è stata esagerata. E se è stato frustrante e sfiancante per chi la partita l’ha vista in tribuna o in poltrona, è facile immaginare quanto lo sia stato sul campo.
“Sull’unione dobbiamo ancora lavorare tanto, è un punto che duole perché si tratta dell’identità che vogliamo mostrare e in alcuni momenti di difficoltà non lo siamo stati” ha detto Michele Lamaro in conferenza stampa. Di momenti di difficoltà come questi, l’Italia è destinata a passarne più d’uno: la crescita e lo sviluppo di una squadra non sono processi lineari. La capacità di reagire alle difficoltà è quella che può fare la differenza nell’esito positivo o meno di quegli stessi processi.
La partita contro l’Argentina era destinata a esporre i limiti della Nazionale in maniera più chiara e drastica di quanto lo facesse quella con gli All Blacks. Sette giorni fa qualunque magagna si poteva celare dietro l’assoluto valore degli avversari. I neozelandesi avevano inoltre impostato un piano di gioco che aveva esaltato ciò su cui i ragazzi di Crowley avevano lavorato per una settimana intera.
I Pumas sono arrivati a Treviso stretti all’angolo, con la consapevolezza di dover vincere e un piano di gioco senza tanti fronzoli: avanzamento per linee dirette, nessun rischio nel proprio campo e lasciamo che siano gli avversari a mettersi nei guai. La dice lunga il fatto che l’apertura Santiago Carreras abbia avuto all’attivo più calci (18) che passaggi (11).
Per gli Azzurri arriva ora il momento di dimostrare tutta la differenza che c’è tra di loro e la seconda fascia del rugby internazionale. Se le migliori squadre al mondo sono una spanna sopra l’Italia, l’Italia è due spanne sopra tutti gli altri, o quasi.
Il compito mentale, attitudinale della rosa di giocatori e dello staff della Nazionale maggiore è quello di digerire l’infelice pomeriggio di Italia-Argentina come un momento che non renda più pesante il pallone per sabato prossimo, ma ci renda invece, in qualche modo, più forti.